Gli alberi: creature “sottili” per la tensione mistica dei monaci dendriti (e non solo)
Con Paolo Luzzi
Riflessione dal mondo di Eumeswil
Vi sono momenti, quando si pratica il vuoto interiore e la mente è sgombra, che la realtà appare nitida di fronte ai nostri occhi e par quasi manifestarci i suoi segreti. Ci sono rari momenti che si riscontra l’ordine del mondo emanato e propagato nella creazione. In quei fuggevoli momenti, istanti gli occhi si riempiono di lacrime estatiche ed il cuore trabocca di una felicità piena. Che poter fare e dire se non grazie? Come restituire il dono che si è posto innanzi inaspettamente? Come prolungare tali bagliori di verità? Come averne di sempre nuovi?
Vi sono case, eremi, chiese, paesaggi nutriti di energie sottili. Come un prodigio ci aprono ad uno stato diverso di partecipazione alla vita. In quei luoghi, un arcano par poter essere scoperto. Se, andiamo scavando, su quei luoghi spesso scopriamo che una luce diversa vi dimora, chiara, nitida, l’aria è pulita, par scorrere nelle nari profumandole ed inondandole di puro ossigeno che si propaga nei bronchi, polmoni e nel sangue arricchendolo di energia. Un vino ricco, pregevole. In alcuni di questi luoghi si scopre che in passato si sono levati culti, asceti vi hanno trascorso in preghiera, in meditazione giorni, anni, la vita. Insieme a loro, spesso si sono uniti discepoli e-o pellegrini.
Vi sono stati santi uomini in cima a colonne,a vivere, senza muoversi sono diventati il centro di una comunità ed hanno saputo riunite gli interessi della Chiesa con quelli del Signore a quelli degli uomini comuni. Tra questi si può annoverare San Daniele lo stilita. Una vita protesa fra terra e cielo come ci indica un saggio curato da Laura Franco.
Fra terra e cielo sta saldo un uomo
che non teme i venti spiranti da ogni parte.
Il suo nome è Daniele e gareggia col grande Simeone,
tenendo i piedi radicati sulla colonna doppia.
Di fama immortale si nutre e di sete esangue,
proclamando il figlio della Madre ignara di nozze.
CIRO DI PANOPOLI, Antologia Palatina I.99
“Quando tirarono giù la ringhiera, lo trovarono con le ginocchia piegate al petto, le cosce attaccate ai talloni e ai polpacci. E dopo che il suo corpo venne disteso a forza, ci fu uno scricchiolio d’ossa sì da pensare che fosse andato in pezzi; ma una volta disteso, non manca assolutamente nulla, anche se i piedi erano consumati di infezioni e mangiati dai vermi. La massa dei capelli che scendeva dal capo era divisa in dodici trecce, ciascuna delle quali lunga quattro cubiti; tutto questo lo vide la maggior parte degli uomini devoti a Cristo. Lo rivestirono con una tunica di pelle, come era suo costume, e, portata una tavola, lo collocarono sulla colonna ed egli fu deposto sopra di essa”.
Addentrarci a conoscere la vita del saggio è come incamminarci in una vita miracolosa, miracolata e feconda di miracoli per la comunità intera. Una vita traboccante di visioni estatiche, di profezie, di guarigioni prodigiose, di parole rivelate dall’Alto. La colonna dove risiede e vive il Santo diviene epicentro del sacro.
La narrazione agiografica ci riporta al mondo fiabesco dove tutto è ancora sempre possibile dove non esiste l’impossibile per chi ha fede, per chi crede in una Realtà ultraterrena. Non mancano i segni, gli enigmi, i cammini tracciati silenziosamente…
Altra vita singolare fu quella di San Vivaldo Eremita Terziario Francescano 1260 – 1 maggio 1320.
Ieri nel fondo di cupa foresta
penitente eremita,
oggi nei cieli
contempla per sempre il volto di Dio
con gloria suprema.
Dalle cronache sappiamo che San Vivaldo nato in Toscana divenne eremita. E così ci venne raccontato del suo eremitaggio:
“Nel freddo pungente di quel giorno invernale, Vivaldo giunse a S. Maria di Camporena: la foresta folta e inesplicabile, castagni secolari davano al luogo una maestà veneranda. Si fermò, aveva sentito nell’intimo del cuore che quello era il posto che la Vergine Santa aveva preparato per lui, ed esultò intimamente, presentendo che di lì sarebbe volato a Dio. Un castagno con una grande apertura nel tronco “nella quale appena poteva stare genuflesso” sorgeva proprio accanto alla Chiesetta, che gioia raccogliersi nell’abbraccio della natura in quel tronco, e quasi ripetendo la vita degli antichi monaci orientali detti appunto “dendriti”, vivere all’interno di una pianta. Certamente nei giorni più rigidi si rifugiava nel piccolo eremo, ma ordinariamente il castagno è la sua cella di eremetita, l’abito di terziario, un Vangelo e una corona sono tutta la sua ricchezza.
Vivaldo è contento, ora può trattenersi sempre con Dio, ora può dire veramente di servirlo.
Pochi passi più là del castagno, il terreno scende ripido e porta ad una fonte dall’acqua limpida e chiara come i suoi occhi puri, ardenti di amore divino.
Vivaldo si reca a dissetarsi a quella fonte, che perciò dalla pietà popolare verrà chiamata nei secoli: “ la fonte di San Vivaldo”.
La vita eremitica non fa cronaca, e se non c’è cronaca non c’è storia, per questo poco sappiamo di questo periodo, pur lungo una ventina di anni, ma quel poco è pur tanto”.
Con queste aperture ci avventuriamo a proporvi il video di quest’ oggi che vede protagonista Paolo Luzzi, già curatore all’Orto botanico dell’Università di Firenze e da tre anni collaboratore botanico al Borgo Laudato si di Castel Gandolfo; saggista.
Il video si intitola: “GLI ALBERI: CREATURE “SOTTILI” PER LA TENSIONE MISTICA DEI MONACI DENDRITI(E NON SOLO)”
Nel video parleremo del simbolismo profondo che gli esseri umani, di qualsiasi tempo, cultura e luogo, hanno riservato agli alberi. Tempo, grandezza e forza dilatati in queste creature che hanno sempre fornito esempi di relazione tra il cielo e la terra, tra l’umano e il divino, protezione e casa non solo per altre piante e animali ma anche templi e rifugio per monaci e asceti. Creature “sottili”, dove il confine tra Spirito e corpo può essere impalpabile.
Paolo Luzzi, in modo brioso, con grande competenza e simpatia ci trascinerà a rapportarci con entusiasmo con la natura fonte di gran benessere per l’uomo e apertura verso il grande Mistero.
Noi dal canto nostro concluderemo il presente scritto con il nostro autore di riferimento Ernst Jünger, grande conoscitore ed amante profondo della natura, fonte inesauribile di meditazioni e contemplazioni profonde, di cura e dispensatrice di balsamo salvifico per la vita, congiunzione fra terra e cielo.
Il saggio che vi proponiamo in lettura è proprio dedicato all’albero, ne estrapoleremo alcuni passaggi, ma prima una massima dei Padri del deserto da fare nostra! L’uomo ha l’opportunità di imparare a coglierla, di trasformare ciò che gli si para innanzi:
“Uno dei padri raccontava questo: “Tre cose sono preziose per i monaci e dobbiamo avvicinarle con timore, tremore e gioia spirituale: esse sono la partecipazione ai Divini Misteri, la mensa comune e la lavanda dei piedi”. Egli dava questo esempio: ”Un giorno, un grande anziano che aveva delle visioni prese il suo posto fra molti fratelli; e mentre mangiavamo, l’anziano che era seduto a tavola vide in estasi alcuni fratelli nutrirsi di miele, altri di pane e altri di immondizie. Si meravigliò interiormente e si mise a pregare Dio: ”Signore”, disse “rivelami questo enigma: viene portato a tavola lo stesso nutrimento per tutti, ma durante il pasto pare che si trasformi: alcuni hanno miele, altri pane, altri ancora immondizie”. Una voce scese dall’alto e gli rispose: ”Quelli che mangiamo miele sono quelli che a tavola mangiano con rispetto, timore e gioia spirituale; pregano senza intermissione e le loro preghiere salgono a Dio come incenso. Ecco perché mangiano miele. Quelli che mangiano pane sono quelli che ricevono i doni di Dio e rendono grazie. Quelli che mangiano immondizie sono i mormoratori, che dicono: Questo è buono, ma questo è cattivo”. Non si devono avere tali pensieri, ma piuttosto glorificare Dio e offrigli le nostre Lodi al fine di compiere la scrittura: “ Sia che mangiate, sia che beviate, sia che facciate altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio (I Cor,10,31.)”.
Ernst Jünger
L’ALBERO
“In ogni lingua c’è un tesoro di parole che ne costituiscono la sostanza. Di tali parole vive la poesia. Come al rintocco di una campana, esse risvegliano nell’uomo un’aurea di risonanze. La parola “albero”è una di queste.
L’albero è uno dei grandi simboli della vita, forse il più grande dei suoi simboli. Perciò in ogni tempo è stato ammirato, venerato ed anche adorato da uomini e popoli. Venerabili apparivano all’altezza, la profondità, l’età plurisecolare, la figura maestosa, generosa di protezione.
I re persiani facevano adornare antichi platani di collane d’oro e nominavano guardiani al loro servizio. Nelle querce antichissime i Germani adoravano il padre dell’universo e nel frassino contemplavano il cosmo. Dalle fronde della quercia sempreverde i Druidi tagliavano il fogliame per il vischio con falci d’oro, per incoronare le corna di tori bianchi; il tasso, albero dei morti, ombreggiava le tombe dei cimiteri celtici. Nello stormire dei boschi sacri a Didone le sacerdotesse udivano la voce e il consiglio del supremo Zeus. E girando in tondo così lodavano:
Zeus fu, Zeus è, Zeus sarà, o tu potente Zeus!
Ancora oggi, in un mondo privo di dei, ci assale un trepido timore all’udito il vento che va e viene nel bosco, che ora increspa appena le foglie e poi risuona sugli alti fusti come un’arpa celeste. Ecco che, toccato più profondamente che dagli accordi dell’organo, si risveglia in noi qualcosa di antico e da tempo dimenticato.
Fluttua a tratti sulle cime
come prendesse respiro e si gonfia
in un’onda e mugghia
e si allontana –
e si fa muto –
e sibila.
Così Peter Hille, un poeta poco familiare e da tempo dimenticato che spesso, “muscoso sognatore”, ricorreva al riparo del bosco. Nella sua vita, come molti prima e dopo di lui, cercò nel bosco conforto e libertà. Fratello uomo ci ha già più volte abbandonati, fratello albero mai.
Ma che cos’era ciò che, in quello stormire, ci dava conforto? Invano cerchiamo di ricordare quella parola pietosa quando “su tutte le vette regna la calma” e il canto ammutolisce. Allo stesso modo, alla luce del giorno, cerchiamo inutilmente di spiegarci il significato di un sogno; ma non ne troviamo la chiave. Dobbiamo tornare a sprofondarci nella notte – è lì che ci aspetta. Il poeta la presentisce:
Aspetta un poco! Presto
anche tu avrai riposo.
L’albero appartiene al padre o alla madre? Non si può dar risposta con una frase. Come vorremmo attribuire l’altezza al padre, così la profondità alla madre. Sotto la chioma troviamo riparo, sicurezza nell’ intreccio delle radici. I rami si allungano come braccia che tendono verso il cielo, mentre le radici affondano nel regno della Terra.
All’occhio si mostra ciò che respira alla luce, gli si cela ciò che si nutre dei succhi della Terra. Ma è la forza di una sola ed identica essenza quella che conquista qui l’altezza e la profondità. Ciò che vediamo nell’altezza e ciò che la profondità ci nasconde è cresciuto da un unico punto e si divide tra il giorno e la notte come un’immagine che si specchia nel suo riflesso.
Immagine e riflesso dispiegano ed esibiscono un prodigio: rimandano a un unico essere che definisce le dimensioni. Quando attraversiamo un bosco, quando osserviamo un vecchio albero, c’è sempre una terza presenza, che unisce immagine e occhio, altezza e profondità.
Da sempre l’uomo, pensando al proprio venire e andare, ha preso l’albero come modello. Quando pensa a coloro che furono prima di lui, discende con lo spirito alle radici. Là sono gli avi, la cui immagine presto si perde nel mito e poi nell’ humus. Dove è vivo il culto dei padri e degli avi, si ha cura degli alberi.
Quando viene alla luce un essere umano, un occhio nuovo si dischiude sull’albero della vita. Molti furono prima di lui, che riposano nella Terra, e dopo di lui molti tenderanno alla luce. Presto anch’egli passerà tra gli avi, sarà avo e progenitore, perché breve è la vita del singolo, come già lamentano i salmi (“Ricorda quant’e’ breve la mia vita. Perché quasi un nulla hai creato ogni uomo? Salmo 88,48); è come l’erba che viene falciata la sera, o come il granello di sabbia che cade nella clessidra. In lui si intrecciano però la serie degli avi e la diramazione dell’albero genealogico, come le radici e i rami della lunga discendenza che si perde nell’oscurità dei tempi.
L’albero della vita è, come la clessidra, un simbolo dei tempi che si intersecano nell’eterno – è qui la sezione, nel colletto della radice. Qui è il punto che chiamiamo attimo; al di sotto di esso vediamo estendersi il passato, al di sopra il futuro.
Nell’albero ammiriamo la potenza dell’ archetipo. E abbiamo l’impressione che non solo la vita, ma l’intero cosmo si dispieghi nello spazio e nel tempo seguendo questo disegno. Lo stesso modello si ripete ovunque volgiamo lo sguardo, fin nelle venature di una foglia minuscola, fin nelle linee della mano. Lo seguono i fiumi che scorrono dallo spartiacque verso il mare, il flusso del sangue nelle vene e nelle arterie, i cristalli nei crepacci, i coralli nelle scogliere.
Nell’ archetipo si avverte l’incomprensibile che si dispiega nel fenomeno. L’attimo protegge e nasconde il sovratemporale, un pò come l’asse materiale della ruota nasconde quello matematico. La pienezza del tempo si nutre dell’ atemporale, il movimento repentino dell’immobile. Così anche lo sviluppo dei piccoli granelli dei semi si ordina in accordo a un indispiegato che non è un punto spermatico, ma pneumatico. Di qui solo si danno alto e basso, destra e sinistra, intreccio involuto e sviluppo dei rami, vita e morte. È un prodigio che si può afferrare solo nella parabola, come quella del granello di senape. L’albero si presenta dunque come un archetipo non solo dell’albero della vita, ma anche dell’albero del cosmo. Lo vediamo in tutti gli elementi, nella pietra, nel fiume, nel fuoco e anche nella volta stellata.
(…) C’è una ragione per cui viviamo in un’epoca mal disposta verso l’albero. I boschi scompaiono, cadono i vecchi tronchi, e ciò non si spiega solo ricorrendo all’economia. L’economia è solo un elemento concomitante, non fa che compiere l’opera, perché è anche vero che viviamo in un’epoca in cui si sperpera in modo inaudito. Ciò corrisponde alle sue due tendenze fondamentali: il livellamento e l’accelerazione. L’elevato deve perdere la sua altezza e l’età la sua potenza. Con la sua altezza l’albero appartiene al padre e con lui cade tutto ciò che costituisce il principio della venerabilità del padre: la corona, la spada del guerriero e quella del giustiziere, il sacro confine, il cavallo.
Il mito però non riconosce nell’albero solo un simbolo dell’albero della vita ma anche del cosmo. Con le sue radici affondate nel terreno primordiale, dischiudendo la fioritura dell’universo, genera stelle e soli. Qui il padre e la madre sono uniti in eterno splendore. È il legno della vita al centro della città eterna in cui ancora non vi sono divisioni né luoghi sacri. Anche il frassino Yggrasil ( è albero che nella mitologia scandinava simboleggia la vita e congiunge la terra, il cielo e l’inferno), all’ombra del quale ogni giorno si riuniscono gli dei per tenere consiglio, non deve cadere con loro: sopravvive oltre il tramonto.
A.T. del mondo di Eumeswil
