Ernst JüngerEstratto della prefazione di “Autunno in Sardegna” di Ernst Jünger
Autunno in Sardegna, di Ernst Jünger

Estratto della prefazione di “Autunno in Sardegna” di Ernst Jünger

di Mario Bosincu

Copertina "Autunno in Sardegna" di Ernst Jünger

Henri Plard ha parlato della nesofilia di Jünger, della sua attrazione per le isole, e della sua volontà di cercare “entro il mondo un mondo che non appartiene già più al mondo, una stazione confinaria ai margini del tempo”1 – ossia, in termini foucaultiani, una eterotopia ed una eterocronia – e Gerhard Loose ha evidenziato come alla base dei viaggi dello scrittore tedesco in Italia vi sia il desiderio di sfuggire al mondo tecnicizzato moderno, dominato dalla ratio2.

L’esperienza del viaggio in Sardegna, intrapreso per la prima volta nel 1954 e raccontato in Presso la torre saracena (1955), non è, tuttavia, priva di problematicità. Jünger è, infatti, consapevole del fatto che “il mondo si sta trasformando nel senso dell’operaio” e che presto l’Isola subirà “l’annessione alla tecnica planetaria”3. Lo scrittore chiarisce dunque come la Sardegna rappresenti un microcosmo prossimo al tramonto in cui si vanno già moltiplicando i segni della modernità. In una pagina di diario scritta nel 1965, del resto, egli riassume il senso delle sue esperienze di viaggio con queste parole:

la storia del viaggiatore […] all’interno di un mondo in rapida ed esplosiva trasformazione è contemporaneamente quella delle sue delusioni. Dovunque si volga l’homo ludens, si fa avanti a salutarlo l’homo faber. Viene in mente la gara di corsa della lepre col porcospino4.

Copertina "Autunno in Sardegna" di Ernst Jünger

In Serpentara è tracciato un quadro efficace della Sardegna quale punto di intersezione tra un passato premoderno e la modernità tecnologica che sta avanzando tramite l’accostamento di due immagini: quella di alcune donne intente a portare l’acqua con delle anfore e quella di una réclame luminosa che rimanda all’universo tecnico, metonimicamente rappresentato da un paio di gambe di donna appartenenti ad un manichino. Un mondo abbandonato dal Sacro, cosa suggerita da Jünger tramite un’unica pennellata: il riferimento alla luce rosa della pubblicità che “non illumina alcun santo”. Il mondo dell’operaio – termine usato dallo scrittore per indicare la forma antropologica tipica dell’età della tecnica – è infatti un cantiere, popolato di merci, da cui è stata cancellata ogni traccia della trascendenza per opera della ratio tecnologica, che persegue il puro raggiungimento dei suoi fini annientando ogni altra dimensione di senso5. Di qui l’impoverimento della realtà, presa nella morsa del fenomeno nichilistico della “riduzione”, che può essere “spaziale, spirituale, psichica; può riguardare il bello, il buono, il vero”6 – e, aggiunge Jünger, il “meraviglioso” [das Wunderbare], con cui “svaniscono non solo le forme della venerazione, ma anche lo stupore come fonte di scienza”7 – ma che “in definitiva sarà sempre avvertita come uno svanimento”8. La Sardegna appare così come un laboratorio in cui è possibile osservare il verificarsi accelerato di fenomeni connessi al processo di modernizzazione, il cui attuarsi, invece, in Germania ha richiesto un secolo. In questo senso, lo scrittore eleva la descrizione della profonda trasformazione che sta avvenendo in Sardegna al rango di parabola generale del dramma della modernizzazione, della sua annessione di uno spazio ancora vergine e dell’annientamento progressivo di un microcosmo premoderno, simboleggiato dall’ammutolire del canto “che ora dai mietitori e dai pescatori giunge sino alla duna”9. La ‘svolta’ di Jünger risulta quindi evidente anche dai toni elegiaci con cui egli celebra un mondo arcaico, in cui il padre e la madre governano ancora la famiglia, distaccandosi così dal sogno modernista della nascita di un mondo artificiale popolato di automi asessuati10. Non sorprende, quindi, che in Serpentara la descrizione del viaggio alla volta dell’isoletta omonima al largo dell’Isola sfoci nella descrizione di una eterotopia ed eterocronia arcaicizzanti e libertarie in cui il singolo, tornato quasi allo stato di natura, può ricostituire una forma di vita associata libera dalla pressione moderna del collettivo ed in grado di godere del pieno possesso del tempo. Ulteriori caratteristiche di questa eterotopia emergono grazie all’uso dell’espressione “robinsonata”, ripresa da Il capitale di Marx, che se ne serve per indicare le teorie economiche liberali che prendono le mosse dall’idea di un individuo in grado, sul modello di Robinson Crusoe, di costruire da solo la sua fortuna. Jünger ricodifica tale termine per esaltare il ritiro volontario su un’isola come un esempio di “passaggio al bosco”11, ossia di autoesilio in uno spazio in cui il singolo può attingere alle sue risorse interiori per trarne salute e vigore. Da questo punto di vista, lo scrittore offre un’altra chiave per comprendere il senso del suo viaggio: esso si configura come una ‘robinsonata’, un ritiro su un’isola reale, che, in qualità di eterotopia, consente all’uomo di riprendere possesso di sé nel quadro della lotta per una soggettività alternativa a quella dell’operaio, semplice strumento disumanizzato della globalizzazione tecnologica.

In Serpentara l’ingresso nel cuore della natura, ha, inoltre, una funzione precisa, come risulta evidente dal racconto del viaggio verso l’isoletta al largo di Villasimius. Jünger si inerpica entro questo spazio circoscritto, circondato da rocce che formano una cupola, verso il suo centro, in cui si trova un castello in rovina, imbattendosi nelle forme molteplici di una natura feconda e policroma, e, infine, nei resti di un uomo. Egli ascende, pertanto, verso un centro in cui vita e morte si coappartengono e si generano l’una dall’altra, costruisce per il lettore una sorta di temenos e lo guida al suo interno, affinché questi, tramite l’attività solitaria della lettura, ripercorra il suo cammino, approdando così alla comprensione di una verità superiore di carattere ontologico. Entro questa prospettiva, è significativa anche l’immagine del “calvario” in cui biancheggiano i resti di animali marini divorati dai gabbiani: servendosi di tale termine, ed alludendo, quindi, alla passione e resurrezione di Cristo, Jünger presenta l’isola come il luogo dell’eterna morte e rinascita, che si succedono nel cuore della natura, poiché lo Stige “è, insieme, acqua di vita”.

Jünger, inoltre, si sente ritrasportato in un mondo primordiale, in un’arena in cui lottano l’uomo e l’animale. Ma, ben presto, il mondo arcaico, fatto di preghiere di propiziazione della pesca e di rapporti feudali tra i pescatori ed il loro rais, si trasforma in San Pietro nello scenario in cui hanno luogo “i ludi bellici ed amorosi di partner animali nel sogno della vita”. Alla figura dell’operaio, che domina e sfrutta la natura per mezzo della tecnica, subentra ora quella del pescatore, che abbandona persino il suo ruolo di avversario umano dell’animale per divenire un essere irretito nella “festa” e nella “danza” organizzata dalla natura in un’epifania dello “splendore” e dell’“orrore” della “perfezione terrestre” percepita dallo scrittore con esultanza vitalistica. La scena in cui la natura si autodivora e si strazia si conclude con l’immagine del tonno dal colore blue cobalto, insultato come Cristo dalla plebe, ad indicare di nuovo il ritmo di morte e rinascita che governa la vita. Non stupisce, quindi, che in San Pietro il viaggiatore sia descritto come un homo religiosus, iniziato alla conoscenza del Sacro quale Realtà della realtà. “In ogni viaggio”, scrive Jünger, “deve essere compreso un pellegrinaggio”, volto a raggiungere “un santuario terrestre” e ad avere accesso ai suoi “misteri”.

Mario Bosincu


[1] H. Plard, “»Zu euch, ihr Inseln…« Über die Nesophilie Ernst Jüngers”, in Heinz Ludwig Arnold (a cura di), Text +Kritik. Zeitschrift für Literatur, cit., p. 99. 
[2] G. Loose, “Die Reisetagebücher Ernst Jüngers”, in Freundschaftliche Begegnungen. Festschrift für Ernst Jünger zum 60. Geburtstag, Vittorio Klostermann, Frankfurt am Main, 1955, p. 76.
[3] E. Jünger, Presso la torre saracena, in Terra sarda, Il Maestrale, Nuoro, 1999, p. 139. Già ne L’operaio, lucida diagnosi dell’affermarsi della tecnica su scala planetaria per opera di una nuova forma umana, è constatata la progressiva scomparsa di spazi risparmiati da tale processo: “ancora ieri si estendevano forse «laggiù in Turchia» o in Spagna e in Grecia, ancora oggi si estendono nelle foreste vergini della cintura equatoriale o sul ghiaccio delle calotte polari, ma domani le ultime macchie bianche di questa bizzarra carta geografica dell’inquieto e nostalgico desiderio umano saranno scomparse” (E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, Ugo Guanda editore, Parma, 1991, p. 49). 
[4] E. Jünger, Siebzig Verweht I, in Sämtliche Werke, Vol. IV, Klett-Cotta, Stuttgart 1982, p. 179.    
[5] “La tecnica, ossia la mobilitazione del mondo attuata dalla forma dell’operaio, in quanto distruttrice di ogni fede in generale, è anche la più decisiva forza anticristiana che mai sia entrata in scena. Lo è in misura tale da accogliere in sé l’elemento anticristiano come una delle sue più autentiche qualità subalterne; con la sua mera esistenza, essa nega. Esiste una grande differenza tra gli antichi iconoclasti e incendiari di chiese, e l’alta quantità di astrazione in virtù della quale una cattedrale gotica può essere considerata un puro e semplice punto di mira nell’area topografica di combattimento da un artigliere della guerra mondiale” (E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, cit., p. 144).
[6] E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, Adelphi, Milano, 1989, p. 74.
[7] Ibid., p. 75. 
[8] Ibid., p. 74.
[9] E. Jünger, Presso la torre saracena, cit., p. 139.
[10] Ne L’operaio Jünger osservava: “ciò che colpisce, anche soltanto nella mera fisionomia, è la rigidità del volto, simile a una maschera […]. Il fatto che questa rigidità da maschera, negli uomini metallica e nelle donne rivestita di cosmesi, si riveli un cambiamento radicale, è già dimostrato dal modo con cui essa comincia a levigare e a smussare persino le forme in cui il carattere sessuale differenzia le fisionomie” (E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, cit., p. 110).
[11] Il riferimento è all’omonimo testo pubblicato nel 1951 e tradotto in italiano con il titolo Trattato del ribelle (Adelphi, Milano, 1990).